DISPERATO CINICO OTTIMISMO
È lei,
l´americana: sempre lei, che nel corso di pochi mesi o di un anno ci propone
grandi libri, miriadi di presunti capolavori e a volte piccole gemme in
sordina, come questo Il grande Slam (titolo originale: Booze) di Charles Webb.
Webb, ampiamente dimenticato
in patria e da noi, è un irregolare vero, un hippy stralunato della
letteratura, autore de Il Laureato,
ha approfittato pochissimo del grandissimo successo del film di Nichols, ma in realtà
non voleva approfittarne, come scoprirete nella postfazione – se prenderete il
libro – a Webb preme soprattutto la propria libertà. E la propria scrittura.
Mattioli sta
facendo un lavoro prezioso di scavo e riscoperta su alcuni autori e titoli, ma già
de Il Laureato si sentiva dire come il film fosse migliore del libro (casi
rari, questi) e insomma il rischio era di trovarsi di fronte a un titolo minore
di un autore minore.
Webb rimane e rimarrà
un minore, probabilmente, uno strano outsider, ma il libro è particolare,
riuscito e mostra una voce a tratti ostica ma peculiare, una sorta di Yates se
vogliamo meno cinico e disperato e che
si cimenta in un riuscito e surreale umorismo, inizialmente tanto sottotraccia che il
lettore – dapprima sorpreso, poi infastidito – ne diventa partecipe dopo essere
entrato nel ritmo, nel “succo” del romanzo (se ci riesce, cosa che presuppone attenzione e impegno).
È una storia di
caduta-redenzione-caduta-redenzione (?), un classico, a leggere o voler
liofilizzare la trama. Un pittore alcolista, la sua prima esposizione, la
prospettiva del successo, e una torma di strani personaggi (un santone-guru e
produttore televisivo, una ex-alcolista che vorrebbe far da mentore al
protagonista, una ragazza spagnola con particolari tare), un plot che rischia
di risolversi nel già sentito o nell´inutilmente bizzarro. In più, la scelta
stilistica di Webb in questo romanzo è particolarmente coraggiosa: evitare del tutto il dialogo, affidandosi
completamente al discorso indiretto.
In realtà, è la
grande umanità di Webb a nobilitare uno spunto tutto sommato non
originalissimo, e la sua fantasia (soprattutto nello scavare nei pensieri e
nelle ossessioni dei suoi personaggi) a fungere da propulsore del romanzo. Lo
scrittore è probabilmente meno sintetico e crudelmente incisivo rispetto a
Yates, e allo stesso tempo non spinge il divertimento “camp” nella direzione
psichedelica e giocosa di un Robbins, trova una sua voce in una narrazione
densa, divagante e precisa allo stesso tempo, amabilmente dinoccolata ma capace
di restituire dolori e disperazione di personaggi persi e fino in fondo umani.
La mancanza di dialogo riesce a restituire un´atmosfera di costante e nebbioso “scambio di
pensieri”, come se la narrazione si costituisse nella testa del protagonista e
consistesse di tutto il “Buzz” (simile a quando nei fumetti si vedono i cervelli dei personaggi "fumare") della realtà
a lui circostante, tagliato con il booze
delle sue ondivaghe – pianificate – sbronze.
In conclusione, non voglio
spacciarvi questo breve romanzo come un capolavoro assoluto della letteratura
americana, ma mostra un autore molto originale, un modo che non si confonde con altri e in sostanza una preziosa voce
credo da riscoprire.
Commenti
Posta un commento